Un SI contro il ritorno alla prima repubblica
Se vince il SI al prossimo referendum costituzionale non ci saranno grossi miglioramenti. Se vince il NO invece la situazione peggiorerà, e parecchio.
Una ''avvelenata'' iniziale
Non so voi, ma io di riforme costituzionali non ne posso più. Ero un pischelletto che faceva ancora l'università, nel lontano 1983, quando venne formata la prima commissione bicamerale, la Commissione Bozzi (me lo ricordo perché ho un caro amico con lo stesso cognome; no, niente a che fare con il politico). Da allora è stato uno stillicidio. L'unico progetto di una certa consistenza che venne effettivamente portato a termine fu quello che partorì la riforma del 2001; riforma brutta e inutile, a cui il progetto attuale tenta di porre rimedio.
La ragione per cui in questi trenta e più anni non è stato combinato quasi nulla, o si sono peggiorate le cose, è a mio avviso molto semplice. Le riforme costituzionali, nel pensiero e nell'azione delle classi dirigenti italiane, sono state usate principalmente per evitare di affrontare mediante ordinarissima legislazione i principali problemi, soprattutto economici, del paese. All'inizio degli anni Ottanta lo stato italiano aveva iniziato a macinare deficit annuali da più di 10% del PIL e l'inflazione stava sopra le due cifre. Era chiaro che, in assenza di mutamenti profondi soprattutto in tema di spesa pubblica, la situazione sarebbe diventata insostenibile. Ma intervenire sulla spesa pubblica è, da sempre e ovunque, molto costoso in termini elettorali. Diventa poi quasi impossibile quando il sistema elettorale è proporzionale, per cui ciascun gruppo sociale che beneficia di una qualche parte della spesa può con molta facilità trovare un partitino (o una corrente di partito) di riferimento nel governo che farà della sua difesa la propria ragione di vita. Pertanto non si intervenne, e la situazione marcì fino all'esplosione del 1992. Parlare di riforme costituzionali era allora, ed è adesso, un modo conveniente per i leader politici di far credere che si sta lavorando a qualcosa di serio e importante (La Costituzione! Le Regole del Gioco! I Princìpi Fondamentali!) senza prendere le decisioni difficili che vanno prese per raddrizzare un sistema insostenibile. ''Sempre meglio che lavorare'', come dice una flessibile battuta.
Ora, non fraintendetemi, non è che tutte le riforme istituzionali siano necessariamente roba poco rilevante. Per esempio, una profonda revisione del regime delle regioni a statuto speciale sarebbe molto utile e quanto mai opportuna, e lo sarebbe stata anche trenta anni fa. Ma non si è fatta, non si sta facendo con questa riforma, e non si farà nel futuro, dato che nessuno può permettersi di avere 5 regioni contro alle elezioni successive. E come non si è fatta la riforma delle regioni a statuto speciale, così non si sono fatte tante altre cose. D'altra parte, se lo scopo delle riforme costituzionali è dare l'impressione che si sta facendo qualcosa di serio e importante senza al tempo stesso risolvere alcun problema reale per evitare di perdere consensi, è ovvio che non ci si può attendere gran ché.
Questi trenta e passa anni di discussione delle riforme costituzionali non sono stati completamente inutili. Ci hanno anche regalato momenti di simpatica e autentica ilarità. Tra i più importanti vogliamo ricordare la divertente campagna condotta dal duo comico Ostellino-Tremonti (''OT'' per gli amici, ma anche off topic rispetto alla decenza), che a un certo punto individuò finalmente nel secondo comma dell'art. 42 (''La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti'') la causa di tutti mali della Repubblica. Vedete, fu la necessità di mantenere la funzione sociale della proprietà che impedì al povero Tremonti di mettere mano a liberalizzazioni e riduzione della spesa pubblica, altrimenti ne avremmo viste delle belle e il paese ora crescerebbe a tassi cinesi. Ma il maledetto comma 2 dell'art. 42 ha impedito tutto questo. Che tempi quelli, quante risate, quante discussioni dadaiste.
E la riforma dell'art. 81, quello sul pareggio del bilancio, ve la ricordate? Che cosa simpatica! Tutti, o quasi, i partiti che votarono a favore. Pensa un po', si dichiarava nella costituzione che il bilancio pubblico deve essere in pareggio ''tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico''. Una banalità ragionieristica, ma la facero passare per lo strumento chiave che avrebbe finalmente risolto il problema del debito pubblico. O che avrebbe definitamente seppellito il paese grazie alle feroci politiche restrittive, a seconda dei casi. Anche lì, quanto ci siamo divertiti, vi ricordate? Con i vari capipartito che su questa banalità cercavano di costruire la fama di austeri e arcigni guardiani del bilancio pubblico, pronti a dar lezioni ai tedeschi. E, dall'altra parte, gli eroici oppositori che rifiutavano la svendita della nazione alle banche, alle multinazionali e (poteva mancare?) al neoliberismo, capeggiati dall'imprescindibile prof. Rodotà. Affermazioni roboanti da una parte e dall'altra, alle quali un comico che andava di moda sempre quand'ero pischelletto avrebbe risposto con una famosa invocazione a Nostra Signora. Momenti impagabili, di autentico e contagioso buonumore.
E così, di risata in risata, arriviamo alla riforma odierna. Più o meno in linea con le precedenti, un tentativo di mostrare che si fanno cose importanti e risolutive senza fare assolutamente nulla di importante e risolutivo. Condita, anche in questo caso, dalle urla assordanti di quelli che si oppongono spiegando quali terrificanti sciagure si abbatterebbero sul paese se la riforma dovesse passare. Mi perdonerete se non ce la faccio a prendere tutte queste discussioni sul serio. No, non è vero che il principale problema dell'Italia nell'ultimo mezzo secolo è stato il bicameralismo e la lungaggine dei processi legislativi. È falso almeno quanto era falso imputare i problemi del paese all'art. 42. Il problema è che si sono continuate a fare pessime leggi perché le coalizioni politico-sociali dominanti (non parlo dei partiti, parlo proprio dei cittadini) così volevano.
No, non è vero che se si elimina il bicameralismo perfetto si precipita nella dittatura, veramente c'è bisogno di discutere di una cosa del genere? No, non è vero che il risparmio di 500 milioni l'anno di ''costi della politica'' (questa è la cifra propagandata dal fronte del sì, che presumo costituisca un limite superiore a qualunque stima realistica) sarà risolutivo dei problemi della finanza pubblica. Intendiamoci, anche un risparmio di un singolo euro è più che benvenuto e l'idea che finalmente gli inutili tromboni del CNEL smettano di succhiare soldi come pompe idrovore è unsaccobbella, ma alla fine della fiera i famosi 500 milioni sono meno dello 0,1% della spesa pubblica. Siamo nei dintorni dell'errore statistico di misura, o se preferite dello stormir di fronda dei tassi di interesse sul debito pubblico. Per attaccare sul serio la spesa pubblica devi ridurre la spesa pensionistica, e quello è suicidio politico, da cui l'esigenza di parlar d'altro. Infine no, non è vero che la maggiore lunghezza dell'art. 70 (quello che disciplina le competenze della Camera e del Senato) complicherà irrimedialmente lo scenario istituzionale. Bella scoperta che è più lungo, prima bastava dire che Camera e Senato fanno esattamente le stesse cose. L'eliminazione del bicameralismo perfetto resta comunque una buona cosa (anche se certo non risolutiva di nulla), anche se ora tocca specificare in costituzione cosa fa la Camera e cosa fa il Senato.
Conviene quindi lasciar perdere e non andare proprio a votare? Mi piacerebbe, ma purtroppo no, e la ragione è che il NO alla riforma non è equivalente al mantenimento dello status quo. Ci condurrebbe invece dritti dritti al ritorno al proporzionale più o meno puro, e questo sarebbe devastante. Ma andiamo per ordine.
Le conseguenze di un NO al referendum
Tra i vari compiti non svolti durante questa legislatura, perché si faceva troppa fatica, è la riforma elettorale del Senato. Qui bisogna fare un passo indietro e ricostruire con cura la storia, perché i dettagli, ancorché noiosi, sono purtroppo importanti. Quindi, vi chiedo un po' di pazienza. Allora, tutto cominciò nel cupo autunno del 2005, quando una banda che faccio molta fatica a non definire di delinquenti (Berlusconi, Bossi, Casini e Fini, in ordine alfabetico) ebbe la bella idea di cambiare la legge elettorale a pochi mesi dalle elezioni, e lo fece a colpi di maggioranza. Ci riuscirono in brevissimo tempo, con tanti saluti a chi ci racconta che è il bicameralismo perfetto la causa della lentezza legislativa. Il risultato del loro sforzo fu una legge elettorale orribile che ben presto tutti iniziarono a chiamare porcellum. Con il quale porcellum gli italiani elessero tutti contenti e giulivi non uno, non due ma ben tre parlamenti (nel 2006, 2008 e 2013), trovando nel frattempo il modo di far fallire, ancor più giulivi e con il più basso tasso di partecipazione mai registrato, alcuni referendum tesi a eliminarne almeno le caratteristiche più criminali della legge elettorale.
Ma a questo punto, colpo di scena! Si sveglia la Corte Costituzionale che, con eccezionale tempestività, a soli 8 anni dalla approvazione della legge porcata, il 4 dicembre 2013 la dichiara incostituzionale (incidentalmente, uno degli aspetti migliori della riforma costituzionale che quasi da solo mi fa propendere per il SI è che le nuove leggi elettorali possono essere sottoposte a giudizio di costituzionalità prima di entrare in vigore; si veda l'art. 73). Questo costrinse le forze politiche ad affrontare sul serio la riforma della legge elettorale. Nessun partito o coalizione aveva i numeri per governare o fare riforme, per cui si giunse, in un processo lungo e rocambolesco, con mezzo parlamento che intanto si spostava da un gruppo parlamentare all'altro, alla riforma chiamata ''Italicum'' per la Camera. Una legge pessima, di cui il meglio che riesco a dire è che almeno non è una legge proporzionale. Probabile che, date le forze in campo, non fosse possibile fare meglio, ma questa è una discussione per un altro giorno. In ogni caso, esausti dallo sforzo di riformare la legge elettorale per la Camera, i nostri cari parlamentari abbandonarono completamente qualsiasi sforzo di riformare la legge elettorale per il Senato, che grazie alla sentenza della Corte Costituzionale era diventata un proporzionale quasi puro. Tanto, ci venne detto, il Senato cambierà completamente con la riforma costituzionale e quindi di una nuova legge elettorale non c'è bisogno. Giusto, ma se poi la riforma costituzionale non passa? Eh.
E così arriviamo all'oggi. Dato l'ampio ed eterogeneo fronte che propende per il NO, il passaggio della riforma al referendum prossimo venturo è tutt'altro che scontato. Se il NO vincerà ci troveremo con un bel bicameralismo perfetto e due sistemi radicalmente differenti per eleggere le due camere, l'Italicum per la Camera e il proporzionale più o meno puro per il Senato. Per come stanno le cose ora, e se non intervengono cambiamenti legislativi, questo significa molto probabilmente ingovernabilità assoluta. Il M5S presumibilmente avrà, grazie all'Italicum, la maggioranza alla Camera mentre il proporzionale ci darà un Senato senza maggioranza, in cui comunque il M5S rifiuterà qualunque coalizione. È probabile tuttavia che dopo il NO la legge elettorale venga cambiata, reinstallando anche alla Camera un sistema proporzionale. Ritorno completo alla prima repubblica, con il M5S a fare la parte del PCI, destinato all'opposizione a vita, e tutti gli altri a fare la parte del pentapartito, destinati a gozzovigliare e malgovernare a vita. Eccetto, naturalmente, che ora il debito pubblico è immensamente più alto e che l'acquisto di consenso a colpi di deficit del 10% non è più possibile.
Tornare al proporzionale è l'equivalente di spostarsi da uno stagno fangoso per buttarsi direttamente nelle sabbie mobili. Se pensate che adesso il sistema politico sia lento, inadeguato e incapace di dar risposte ai problemi reali del paese, aspettate di avere defatiganti coalizioni governative con 6-7 partiti e uno stato di campagna elettorale permanete e poi ne riparliamo. Se pensate che adesso gli incentivi ad acquistare il consenso dei gruppi sociali più svariati a suon di spesa pubblica siano troppo forti, aspettate che torni il proporzionale e poi ne riparliamo. E se pensate che queste riforma costituzionale non sia abbastanza buona, aspettate di vedere cosa riesce a partorire un parlamento eletto con il proporzionale e poi ne riparliamo. Per quel che mi riguarda, il ritorno al proporzionale va evitato come un'epidemia di peste bubbonica. Questo è il principale motivo per cui voterò SI.
Ma più nel merito?
Una volta spiegato che il mio SI è strumentale a evitare un ritorno al proporzionale, resta la domanda: ma la riforma in sé è buona o cattiva? Per evitare di allungare un articolo già troppo verboso dico sempllicemente che su questo la mia risposta non si discosta da quella che su nFA ha dato Giovanni Federico: la riforma produce una situazione marginalmente migliore dell'attuale, senza produrre risultati roboanti. Ho trovato inoltre molto pertinenti le osservazioni di Roberto Bin, docente di diritto costituzionale a Ferrara; i lettori più affezionati ricorderanno un suo intervento su nFA ai tempi in cui, in pochissimi, combattevamo contro la porcata Alitalia. Come sfizio personale aggiungo che, da emigrato, sono dannatamente contento che vengano eliminati i senatori eletti all'estero, anche se purtroppo restano i collegi esteri per la Camera.
Due parole infine sugli argomenti per il NO apparsi su questo sito. Giovanni Accolla dice che il suo cuore ''batte per i sistemi proporzionali''. Fa quindi benissimo a schierarsi per il NO, dato che è proprio lì che la bocciatura della riforma ci porterà. Il mio cuore invece batte per il sistema australiano, o in alternativa il doppio turno di collegio, e il cervello mi dice che il proporzionale servirà solo a invischiare il paese ancora di più nella melma. Quindi voterò SI. Let's agree to disagree. Sull'articolo di Michele Boldrin, di nuovo rimando a Giovanni Federico, ma aggiungo una cosa.
Io ho completamente abbandonato la speranza che in Italia si possa attuare una qualche forma di federalismo responsabile. È assolutamente evidente, dopo più di un quarto di secolo di discussioni e tentativi, che gli italiani il federalismo non lo vogliono, punto e basta. Non lo vogliono né al Sud né al Nord. I partiti politici, a cominciare dalla Lega, riflettono semplicemente questa contrarietà generale della popolazione; basta guardare all'ostilità verso la tassazione degli immobili, che è la pietra angolare di qualunque federalismo fiscale minimamente funzionante e responsabile. Quindi no, non mi si può venire a dire che questa riforma è da rigettare perché non attua il federalismo responsabile e ben disegnato che piacerebbe a me, Michele Boldrin e forse un altro 0,5% dell'elettorato italiano. Quella cosa lì non ci sarà e non ci può essere per la elementare ragione che gli italiani, in stragrande maggioranza, non la vogliono. Questa riforma corregge le assurdità sulle competenze condivise introdotte nella riforma del 2001, che francamente su questo punto sembrava scritta da liceali che si erano fatti troppe canne (si dice ancora ''canne''?). Nel farlo, rende il paese un po' più centralista e un po' più razionale. Meglio così piuttosto che le altre alternative possibili. Per le alternative ideali ma impossibili ci possiamo sempre trovare in qualche convegno.